Said e il ritorno del represso – Intervista a Stefano Brugnolo

Nell’ormai lontano 2011, in qualità di redattrice di una piccola, ma molto apprezzata, rivista letteraria, Aeolo, intervistai Stefano Brugnolo, docente di teoria della letteratura presso l’Università di Pisa.

Il professore stava dando alle stampe un articolo apertamente critico nei confronti delle posizioni di E. W. Said sul tema dell’orientalismo,  un argomento a me molto caro.

Rimasi fortemente affascinata dalle idee di Brugnolo. Se per Said l’orientalismo è sempre e solo “uno stile occidentale per dominare, ristrutturare e avere autorità sull’Oriente”, Brugnolo, di contro, sostiene che la grande letteratura, anche quando presenti discorsi marcatamente ideologici, non possa mai essere colpevolizzata. Se si tratta di vera letteratura, emergerà anche la messa in discussione di qualsiasi strategia di dominio, non per volere dello stesso autore, ma perché ciò costituisce un meccanismo intrinseco ad ogni autentico discorso poetico.

 

odalisca

Jean-Auguste-Dominique Ingres – La grande odalisca

 

E. W. Said ai più è noto come orientalista, e per il suo impegno politico a favore della causa palestinese. Troppo spesso, forse, viene tralasciato che per formazione fu principalmente un critico letterario. Che ruolo hanno avuto le sue opere e le sue idee in quest’ultimo ambito? Quali sono stati i suoi limiti?

Edward Said ha esercitato ed esercita una influenza notevolissima sugli studi letterari contemporanei. Si può dire che ha contribuito a fondare quella linea di ricerca che oggi passa sotto il nome di critica postcoloniale. Inoltre, egli può essere considerato uno dei massimi rappresentanti dei cultural studies. Io credo in effetti che gli studi post-coloniali, come i gender studies, siano di fatto un sottoinsieme dei cultural studies e che perciò vale prima di tutto la pena dire qualcosa su questi ultimi, anche perché essi stanno prendendo sempre più piede in Europa e in Italia. Diciamo allora che  i rappresentanti di questa linea di ricerca fanno rientrare la letteratura nella più vasta galassia delle manifestazioni culturali che caratterizzano un’epoca o una nazione. I documenti ufficiali, la trattatistica politica, la filosofia, le prediche, gli atti dei processi, gli articoli di giornale, le canzoni popolari, il cinema, la televisione, i fumetti, le mail, gli sms, e chi più ne ha più ne metta, fanno tutti parte, insieme alla grande letteratura, della sfera culturale, e secondo questi studiosi non vale la pena distinguere tra generi e livelli. Per loro si possono e si devono invece stabilire nessi circoscritti e stringenti tra questi discorsi al fine di gettare luce sugli aspetti problematici di una certa fase storica. Gli studi culturali intendono inoltre svelare le contraddizioni insite in questi discorsi, che nel mentre tendono a occultare certe dinamiche di potere sono a loro volta attraversati da tensioni e incrinature. Compito del critico è di svelare queste tensioni e incrinature e non tanto spiegare l’effetto di grandezza e bellezza e al limite di perfezione che i testi letterari ci fanno. Come si vede, il primo assunto nega alla letteratura uno statuto specifico, quella autonomia che la rende diversa da altri tipi di scritture; il secondo assunto schiaccia la letteratura sull’ideologia corrente e ufficiale, la rende non solo partecipe ma anche portavoce autorevole e autorizzata di quella ideologia. Said per esempio con il suo libro sull’Orientalismo ha voluto dimostrare che anche la letteratura e le altre arti erano parti attive di un progetto coloniale e imperiale di dominio sull’altro. Ecco per esempio cosa scrive dell’Aida di Verdi: «L’imbarazzo suscitato dall’Aida deriva dal fatto che non si tratta tanto di un’opera sul dominio imperiale, ma che è parte del dominio imperiale». L’orientalismo dunque nella sua prospettiva è l’esito di una gigantesca e plurisecolare manipolazione dell’identità dell’Altro, che viene rappresentato secondo certi stereotipi utili a farci apprezzare la ‘nostra’ superiorità e la ‘loro’ inferiorità. Il successo di Said è stato enorme e almeno per certi aspetti meritato: egli dava voce al bisogno impellente dei popoli che si erano appena liberati dal colonialismo militare e politico di liberarsi anche dalle soggezioni culturali e di rivendicare una identità culturale propria. Si sente nei suoi saggi un forte e nobile pathos politico e di giustizia, e l’aver individuato una pervasiva retorica orientalista resta un suo merito indiscusso.

Quello che io gli contesto è l’appiattimento della grande letteratura su altri discorsi di tipo esplicitamente e univocamente ideologico. In altre parole, per me si tratta di dire che la letteratura è una espressione linguistica molto diversa dai trattati, dalle prediche e dai comizi e che la sua diversità, che poi fa tutt’uno con la sua capacità di durata, dipende da questa sua vocazione a dire sempre qualcosa di più, di diverso e spesso di opposto a quanto affermano i discorsi ufficiali. E questo non per un privilegio mistico, non perché i poeti sarebbero alieni dalle bassezze umane, ma perché la letteratura è quel tipo di discorso che si lascia infiltrare dalla logica dell’inconscio, e cioè da quella logica che si caratterizza per la sua fondamentale ambivalenza. In altre parole, i poeti anche quando negano affermano, e d’altra parte quando affermano negano. O altrimenti detto: quando un poeta dà torto a un suo personaggio sotto sotto gli dà anche qualche ragione e quando gli dà ragione sotto sotto gli dà anche qualche torto. In questo consiste l’ambivalenza. Mentre altri discorsi mirano a dire proprio quel che dicono, la letteratura essendo un discorso figurato dice sempre altro da quel che letteralmente dice, che lo scrittore lo voglia e lo sappia, o no.  Facciamo un esempio: come tanti discorsi pedagogici ottocenteschi che facevano la morale ai bambini discoli anche Pinocchio di Collodi tira le orecchie al suo protagonista e ai bambini come lui, ma sotto sotto simpatizza profondamente con il burattino e ci induce a simpatizzare con quelle sue monellerie, con quel suo spirito disobbediente e avventuroso. Se noi schiacciamo Pinocchio sulla pubblicistica pedagogica del tempo non siamo capaci di renderci conto del perché a distanza di tempo la storia di quel personaggio sia così universalmente popolare, mentre quegli altri discorsi ci appaiono oggi obsoleti, pedanti e irricevibili. Insomma, se certi libri durano nel tempo e ci parlano ancora a distanza di secoli e millenni, non è certo perché testimoniano dei pregiudizi e degli stereotipi del loro tempo, ma, tutto all’opposto, perché essi hanno superato quei pregiudizi, perché li hanno rovesciati. Tutto questo discorso mi serve per dire che Said con il suo libro sull’Orientalismo ha fatto proprio questo: ha fatto di ogni erba un fascio, ha trattato alcuni grandi scrittori, quali Kipling, Malraux, Gide, Conrad, ecc., al pari di altri ideologi e propagandisti contemporanei di quelli, e cioè come portavoce di una colpevole ideologia occidentale tendente a dimostrare l’inferiorità degli orientali. Io non mi scandalizzo per queste affermazioni, né tanto meno chiedo che la letteratura sia considerata come un’espressione di pura e astratta bellezza. Io anzi concordo con Said nel dire che la letteratura è impregnata di ideologia, ma sostengo anche che essa fa un uso speciale di quella ideologia, e cioè appunto la rivede, la rovescia, la oltrepassa. Mentre la afferma la nega. Per esempio: sì, è vero, quando Kipling ci rappresenta il modo di vita indiano come lento, disorganizzato e pigro lo fa perché eredita certi cliché orientalisti sugli indiani, d’altra parte occorre dire anche che mentre per certi alfieri dell’imperialismo quella disorganizzazione era solo negativa, per lo scrittore Kipling essa poteva diventare un sintomo di ricchezza umana, di una capacità di sentire e vivere in modo più sensuale, rilassato e pieno le proprie vite. Kipling eredita dall’ideologia orientalista lo schema manicheo che contrappone l’ordine, la razionalità e la funzionalità anglosassoni al disordine e all’irrazionalità indiane,  ma nei fatti lo rovescia, o comunque ne rovescia le valenze: l’ordine e l’efficienza anglosassone ci vengono allora fatte sentire come disumane e manipolatrici, mentre la rilassatezza e la lentezza indiane ci vengono presentati come affascinanti. Kipling fa questo andando al di là delle sue intenzioni, e lo fa perché si fa trascinare dalla scrittura, dalla vicenda e dai suoi personaggi. Liquidare Kipling (e altri come lui) come uno scrittore imperialista e razzista è dunque dire solo una parte della verità.

Concludendo: va dato atto a Said che è stato capace di enucleare con grande dottrina e competenza i tanti pregiudizi di cui grondavano le immagini dell’oriente prodotte dagli scrittori occidentali, ma tenere presente questa verità non dovrebbe impedirci di vedere che la letteratura quando è grande non è mai prigioniera di quei pregiudizi. E comunque, al di là dell’ambito orientalista, mi pare che gli studi ispirati a questo approccio enfatizzano il lato conformistico della letteratura e ne disconoscano troppo quello utopico.

 

Si potrebbe dunque definire la critica di Said una critica “riduzionista”? Se si, perché? 

Per le ragioni che ho detto sopra: perché in buona sostanza riduce la letteratura a ideologia. Ma ancora una volta, e andando al di là degli studi postcoloniali, si dovrà dire che sono viziate di riduzionismo e in definitiva poco perspicue anche tutte quelle critiche che dimostrano e denunciano che i testi letterari sono pieni di pregiudizi sessisti, razzisti, classisti, religiosi, ecc. E non perché non sia vero, ma perché è ‘troppo’ vero, e cioè è evidente, e dunque tautologico. Perché stupirsi che in una società divisa in caste il popolo venisse rappresentato negativamente o in modo grottesco? Perché stupirsi che in una società patriarcale le donne venissero rappresentate come esseri pericolosi, da tenere a bada? Insomma, questo tipo di critica non reca informazioni interessanti. D’altra parte se i grandi testi letterari fossero soprattutto o addirittura solo manifestazioni di pregiudizio verso il diverso, non si capirebbe perché molti di noi li leggono ancora, ricavandone grandissimo piacere e sentendo che essi ci fanno penetrare zone opache dell’umano che altri discorsi non riescono a illuminare così. Noi dobbiamo cercare anche come docenti e critici di provare a spiegare questo: perché i testi letterari eminenti, che pure sono indubbiamente legati alle inattuali ideologie del loro tempo, ci parlano, e ci dicono ancora cose importanti, forti, vere? Perché non possiamo fare a meno di ascoltarli? Si prenda Shakespeare: il suo Mercante di Venezia è certo intriso di antisemitismo, eppure il personaggio terribile di Shylock è capace di dire cose emozionanti e definitive sul diritto degli uomini, di tutti gli uomini di essere trattati alla pari. Non solo, esso ci dice anche che là dove essi non saranno capaci di farlo, allora i discriminati, i perseguitati si sentiranno in diritto di vendicarsi in tutti i modi possibili, e quando potranno farlo lo faranno anche nei modi più feroci.

 

Said, riprendendo uno stile di indagine che fu già di autori come Foucault e Deridda vede l’orientalismo come un “discorso” che, propagandosi attraverso diverse epoche e registri letterari tende a omogenizzare l’ “Altro” in una visione essenzializzata. Ma lei sostiene che questo tipo di accusa non possa essere mossa seriamente al campo dell’arte e della letteratura, anche se ideologicamente influenzate dal cosiddetto discorso orientalista. Può spiegare quello che secondo lei è il rapporto tra grande letteratura ed essenzialismo?

Said riprende questa categoria dallo studioso Anwar Abdel Malek secondo cui gli orientalisti «adottano una concezione essenzialista delle regioni, nazioni e popolazioni orientali che studiano, una concezione che si esprime attraverso una ben caratterizzata tipologia etnica […] che verrà ben presto condotta ai limiti del razzismo». In altre parole ancora gli orientalisti inchioderebbero le popolazioni dell’Oriente ad una sorta di essenza astorica. Ora, in effetti è vero che là dove geografi, storici, antropologi operano questo tipo di generalizzazioni, dimostrano di essere prigionieri di stereotipi e luoghi comuni anti-scientifici, e bene ha fatto Said a denunciare questi casi. Altra cosa però mi pare è coinvolgere nella stessa critica gli scrittori, e non solo i minori ma anche i grandi e i grandissimi. Anche qui, non si tratta di invocare per questi ultimi un trattamento di riguardo, ma di saper valutare la specificità della scrittura poetica che per statuto ricrea, reinventa, trasfigura i fatti e le persone da cui trae spunto. In altre parole, se per essenzialismo intendiamo generalizzazione, allora è evidente che molti scrittori allorché hanno trattato con le sostanze o i caratteri nazionali o etnici, lo hanno fatto quasi sempre sulla base di forti generalizzazioni, che se da un punto di vista scientifico sono senz’altro infondate, da un punto di vista poetico risultano spesso valide. Prendiamo un caso che ci riguarda come popolo. Come è noto, per Stendhal gli italiani erano gente impulsiva, appassionata, energica, spontanea. Ora, tale visione può essere certamente considerata essenzialista e può perciò indurci a parlare per lui di un pregiudizio ‘italianista’: gli italiani saranno stati certo un popolo molto più complesso e vario rispetto all’immagine esotica che egli ce ne restituisce. Ma è altrettanto vero che questa sua costruzione immaginaria non punta certo a descrivere oggettivamente, veridicamente il presunto carattere di una nazione. Essa si propone esplicitamente come una figura, come una immagine poetica, potente e sintetica, e non come un giudizio oggettivo e ponderato. Gli italiani di Stendhal sono perciò gli italiani visti, immaginati, sognati, trasfigurati dallo scrittore. In altre parole ancora, attraverso quelle immagini Stendhal mira a suggerirci l’impressione di un altro modo di vivere e sentire rispetto ai modi di vivere e sentire che si andavano affermando nelle nazioni più progredite, e spinto da esperienze del tutto occasionali e idiosincratiche chiama italiano quel certo sistema di vita. Tale way of life non vale solo ‘in positivo’ ma anche ‘in negativo’ come antitesi immaginaria di un sistema di vita improntato a valori come calcolo, razionalità, autocontrollo, culto delle apparenze. Risulta allora evidente che gli italiani di Stendhal sono e non sono gli italiani ‘veri’: questi ultimi sono solo uno «spunto» per parlare di qualcosa che non si esaurisce nel presunto carattere di una nazione; essi sono solo una sineddoche o una antonomasia di una classe di individui ben più vasta, letteralmente infinita. Lo scrittore ha prelevato ed enfatizzato alcuni aspetti di questo ipotetico carattere nazionale e su questa base ha concepito una sua peculiare immagine degli italiani che naturalmente può riguardare tanti altri individui che italiani non sono. Molti francesi, inglesi, tedeschi, danesi, americani leggendo Stendhal si saranno sentiti italiani. Non certo sulla base di alcune ben specifiche caratteristiche etniche e culturali, ma appunto sulla base di una ‘italianità’ universale, ‘essenziale’. Su questa base ci sta pure che anche alcuni italiani si siano sentiti ‘italiani’ leggendo Stendhal, ma non certo perché nati nella penisola. E questo vale più che mai per l’Oriente e gli orientali di Kipling e degli altri. Le immagini che quegli scrittori ci hanno dato di quei luoghi e di quelle genti va ben al di là di quei luoghi e di quelle genti. Per quegli scrittori l’Oriente è una macrofigura che si carica di valenze sempre diverse. E la stessa cosa va detta di Otello e di Shylock. Il primo è solo superficialmente un etiope dalla pelle nera, e solo a livello superficiale possiamo attribuire la sua selvaggia gelosia a questa sua diversità. In realtà quel personaggio sta per tutti i parvenu del mondo, che anche quando si sono assimilati alle maggioranze locali, quasi sempre si sentono ancora internamente fragili, diversi ed esposti e sono perciò ricattabili e confondibili da soggetti come Jago, che proprio su quelle fragilità sanno perversamente fare leva. E per quanto riguarda Shylock egli è ben più di un ebreo veneziano che presta soldi ad usura, egli sta per qualunque individuo emarginato e disprezzato da una qualsiasi maggioranza, e che cova in sé desideri estremi di rivincita e vendetta. E cose simili si potrebbero dire allorché i soggetti conculcati sono donne o omosessuali. Anche in quei casi si deve dire che quando la letteratura parla di donne e di omosessuali non sta parlando solo e tanto di loro. Martha Nussbaum nel suo libro sulla Fragilità del bene ha potuto per esempio scrivere: «Il famoso interesse di Euripide per le donne riguarda questa condizione di esposizione, questa impotenza davanti agli affondi della guerra, della morte, del tradimento. In tempo di guerra le donne vengono catturate e ridotte in schiavitù, mentre gli uomini godono almeno della possibilità di morire coraggiosamente. I corpi delle donne, come Euripide evidenzia e ribadisce, vengono considerati come spoglie di guerra, da possedere alla stregua dei buoi e dei tripodi. […] Nella condizione sociale di una donna (dal momento che, se la donna non è una regina, la sventura non richiede nemmeno il caso estremo) possiamo cogliere una possibilità che riguarda tutta la vita umana». La domanda che ci dobbiamo fare quando uno scrittore si riferisce a certi presunti caratteri nazionali o etnici è perciò questa: ma di cosa ci sta parlando quando ci parla di italiani, ebrei, orientali, neri, ecc.? E la risposta non potrà che essere la seguente: non di loro, bensì di me, di te, di noi.. Di noi in quanto per alcuni aspetti e tratti possiamo agevolmente rientrare in quella categoria generale o ‘essenziale’ che il poeta ha evocato a partire da certi dati e condizioni specifiche. Gli scrittori che non ci rendono possibile queste identificazioni con l’altro, gli scrittori che allorché parlano degli orientali ci fanno sentire che noi siamo diversi da loro, non sono grandi scrittori, ma scrittori al servizio dell’ideologia.

 

 
Che ruolo possono avere oggi le teorie di Said? è sicuramente suggestivo tener presente che Obama da giovane fu suo allievo…

Io credo che il pathos antirazzista, mondialista, politicamente generoso che ha caratterizzato la militanza critica e scientifica di Said resti un valore prezioso. Penso che Obama abbia potuto imparare proprio questo da lui: la critica del pregiudizio razziale, la capacità di pensare in termini di umanità e non di gruppi nazionali o etnici. Tuttavia credo che Said possa essere usato male, se ci si illude che sia possibile ‘fare la morale’ alla letteratura sulla base di criteri politicamente e ideologicamente corretti. Io credo che la letteratura presenti necessariamente aspetti poco addomesticati, qualche volta perfino imbarazzanti, che non possono essere tutti moralizzati. Come insegnava il mio grande maestro Francesco Orlando la letteratura esprime tutto ciò che nelle società è represso, misconosciuto, taciuto, temuto, ma detto questo dobbiamo essere pronti a confrontarci con tanti tipi di ritorno del represso. Non solo con quelli che ci piacciono perché corrispondono alle nostre idee e convinzioni morali e politiche. Ho riascoltato da poco il Don Giovanni di Mozart su libretto di Da Ponte. Ebbene, i valori che quel personaggio musicale rappresenta non sono commendevoli, non possono essere raccomandati sul piano ideologico, hanno a che fare con un eros scatenato, eccessivo, prepotente, e tuttavia come negare che Mozart ha reso il suo protagonista terribilmente affascinante? Certo, il librettista e il compositore lo fanno finire male, lo mandano all’inferno, ma prima di finire all’inferno Don Giovanni ha tenuto il campo e ci ha riempito di stupore e ammirazione. Ci ha letteralmente soggiogati. La letteratura è anche questo, non è solo perorazione del bene e del giusto, è anche registrazione dei nostri aspetti più segreti e inquietanti, delle nostre parti istintive, asociali, perverse. L’approccio di Said ha forse questo difetto: pretende che la letteratura dovrebbe dire sempre ciò che lui riteneva essere moralmente e politicamente bene e giusto. Come cittadini in effetti dobbiamo sempre puntare a stare dalla parte del bene e del giusto, nei limiti in cui siamo capaci di definirli e praticarli, ma come lettori, credo, possiamo e dobbiamo essere moralmente e ideologicamente più liberi e avventurosi.

25/05/2011

tratto da: Aeolo VII (2012), pp. 66-73.

Gesù era gay? Sulla bufala dei codici giordani – Intervista a Paolo Attivissimo

“Gesù era gay. Lo affermano eminenti giornali americani in seguito al clamoroso rinvenimento i di alcuni preziosissimi codici in bronzo risalenti a duemila anni fa…”

compagnone  Si tratta di un tormentone che da un po’ di tempo sta girando in rete, che merita un approfondimento e sicuramente dei chiarimenti. Risalgono all’ultima settimana di Marzo 2011 i primi articoli della stampa di oltreoceano inerenti ad una fantomatica scoperta fatta in Giordania, dove un beduino avrebbe rinvenuto una settantina di codici in bronzo, abbastanza antichi da essere considerati “fonti di inestimabili valore” per la conoscenza del cristianesimo delle origini. La clamorosa scoperta, però, si è presto rivelata falsa, ed è stata smentita da diversi studiosi. Ma si è trattato di smentite che hanno avuto risonanza solo all’interno dell’ambito accademico e che non hanno saputo frenare l’inarrestabile diffusione virale della notizia.

Così la bufala – termine con cui si indicano nel gergo giornalistico le notizie false –  col passar del tempo è andata ingigantendosi come una palla di neve che si tramuta in valanga. Fondamentale a tal proposito un intervento di J. R. Davila sul sito PaleoJudaica.com, anche questo risalente all’ultima settimana di Marzo. Lo studioso riporta uno scambio epistolare – avvenuto nel Settembre del 2010 – tra un certo D. Elkington che afferma di aver ritrovato dei documenti di inestimabile valore in una sperduta località a nord dell’Egitto e P. Thonemann, ricercatore di Oxford.   Thonemann , in particolare, dopo aver esaminato alcune foto dei fantomatici codici di bronzo conclude, con estrema sicurezza, che si tratta in realtà di falsi – anche abbastanza grossolani – prodotti non più di cinquant’anni fa. Come evidenzia Davila, inoltre, il signor Elkington viene citato in tutte le notizie in cui si parla della scoperta dei codici di bronzo, e le immagini dei fantomatici reperti rinvenuti in Giordania risultano eccessivamente e sospettosamente simili a quelle che lo stesso Elkington, fino a qualche tempo prima, sosteneva di aver rinvenuto in Egitto…

Il quattro di Aprile vengono nuovamente rimescolate le carte in tavola. Compare sul The Guardian, un articolo intitolato Jesus as an openly gay man. L’autore è Michael Ruse, filosofo e biologo, curriculum di tutto rispetto e numerose collaborazioni con le più prestigiose università americane. Ruse riprende il polverone sensazionalistico dei codici giordani scoppiato qualche settimana prima. Afferma che sono finalmente stati tradotti, mettendo in luce “un nuovo lato molto poco conosciuto di Gesù”. Viene addirittura menzionata una parabola nella quale si narra di due giovani uomini la cui anima “era legata indissolubilmente, come il loro cuore e le loro vite”.

La data – il quattro di Aprile – ma anche lo stesso occhiello dell’aricolo: What if the newly found codices provided evidence of Jesus’s same-sex activity? Michael Ruse imagines the implications(ovvero “Cosa accadrebbe se i codici recentemente scoperti provassero l’omesessualità di Gesù? Michael Ruse immagina le possibili implicazioni). Svelano che si tratta in realtà di un pesce d’Aprile ben architettato.

Ruse, ateo dichiarato, si è spesso dedicato alla confutazione delle tesi creazioniste; è anche noto per le sue aperte critiche ad un altro “ateo militante” Dawkins, i cui atteggiamenti “eccessivi”, a detta di Ruse, comporterebbero una maggiore chiusura da parte dei credenti rafforzando posizioni reazionarie ed estremiste. L’articolo era dunque un simpatico scherzo, una provocazione che voleva far riflettere credenti e non, invitando i lettori a prendere le distanze da certe letture letterali e troppo spesso strumentalizzate delle Sacre Scritture. Ma una volta che il dado è stato tratto, la notizia ha cominciato a vivere di vita propria, diffondendosi a macchia d’olio attraverso la rete.

Viene da chiedersi dunque, fino a che punto sia opportuno inventare storie false con fini edificanti per poi diffonderle su internet. A tal riguardo, si è deciso di dare la parola ad uno dei massimi esperti di bufale, Paolo Attivissimo, ultimamente balzato agli onori delle cronache per il falso allarme del terremoto che avrebbe dovuto colpire Roma l’undici Maggio.

Renata Schiavo:  secondo lei, da un punto di vista etico fino a che punto è giusto usare una bufala (magari edificante) come provocazione?

Paolo Attivissimo: eticamente una bufala ben costruita può essere utile ed educativa, ma è difficilissimo costruirla (soprattutto nell’era di Internet) senza correre il rischio che si perda traccia del fatto che si tratta di una bufala. Capita infatti spessissimo che la bufala finisca per essere dissociata dalla sua spiegazione reale e quindi si propaghi sembrando autentica.

R. S. :Esistono altri casi simili a quello di Michael Ruse?

 

P.A. : Faccio un paio di esempi. Il sito Bonsaikitten.com (apparente negozio di vendita di gattini allevati dentro bottiglie) fu ideato come provocazione per far riflettere su certe scelte arbitrarie dei alcuni movimenti animalisti, in particolare la tendenza a preoccuparsi degli animali che fanno tenerezza ignorando gli altri (tutti ci preoccupiamo della strage di foche, pochi di quella di maialini appena nati). Purtroppo, nonostante le smentite ripetute, molte persone ci cascano tuttora e la bufala è stata propagata anche da giornali e trasmissioni televisive. Io uso Bonsaikitten come caso emblematico durante le mie lezioni e conferenze: lo presento inizialmente come sito reale, ma racconto sempre subito dopo che si tratta di una bufala. In questo modo ottengo l’effetto educativo di creare stupore e indignazione e di indurre le persone a credere a una bufala, per poi spiegare loro perché ci hanno creduto e quali sono i meccanismi ricorrenti delle bufale. Un altro esempio è il documentario “Operazione Luna”, di William Karel. Sembra un documentario che svela che non siamo mai andati sulla Luna, tramite le interviste-confessione con politici di fama internazionale, la vedova di Stanley Kubrick, alcuni astronauti e altre persone di indubbia autorevolezza, e solo nella parte finale viene spiegato che si tratta di una provocazione. Purtroppo il documentario circola su Internet senza la parte finale e quindi molti ne fraintendono completamente il senso.

R. S. :Una bufala può dunque essere uno strumento utile, o si tratta sempre e comunque di “spazzatura” che intasa i canali comunicativi?

P. A. : Io consiglio di evitare le provocazioni se non si è sicuri di poter raggiungere con la smentita tutti coloro che sono stati raggiunti dalla bufala iniziale.

La distinzione tra verità e menzogna in un’epoca nella quale le notizie si diffondono ad una velocità sempre maggiore rischia dunque di risultare sempre più sottile. Un contenuto sensazionalistico, inoltre,  ha spesso una diffusione più veloce di una sua eventuale confutazione. L’articolo di Michael Ruse, possedeva infatti un occhiello nel quale era già contenuta l’onesta autosmentita della dirompente provocazione di un Gesù omosessuale che si è però rapidamente persa nel frenetico passaparola virtuale.

In questo caso specifico smascherare una bufala significa rendere giustizia al suo inventore e riproporre l’utile e stimolante interrogativo per cui era nata: e se un giorno si scoprisse che Gesù era gay?

Renata Schiavo

AEOLO VII (ISSN 2036-1336), pp 116-121.

P.S. L’articolo è tratto dal settimo numero di AEOLO, una rivista letteraria (purtroppo non più edita) fondata da Enrico Santus e da altri giovani studenti universitari nel 2008.

Islam e omosessualità – intervista agli attivisti de “il grande colibrì”

 

Professore, ci sarebbe stata la primavera araba senza facebook?

«No, ma mi pare che questa domanda ne pretenda un’altra»

Quale?

«Che ne è dell’estate araba? Qualcuno ne sa qualcosa?»

No, ma che cosa significa?

«Significa che ciò che si può fare attraverso i social network è spettacolare, impressionante, ma “so what?” Che cosa succede poi? Egiziani e tunisini hanno forse idea del loro futuro?»

Da La Stampa del 27/08/2011

 INTERVISTA Z. Bauman -“Se non ti vendi la tua vita è miserabile”

di A. Malaguti

In ogni tempo e in ogni società vi è sempre stata una parte sommersa ed invisibile.  Si tratta di complesse realtà sotterranee che, tuttavia, ad un certo punto del corso della storia sembrano emergere con forza irrompendo dal nulla. Si tratta, tuttavia, solo di un’ impressione. Certe idee e certe rivoluzioni culturali non nascono come i funghi: quando entrano ufficialmente nella storia hanno già alle loro spalle un percorso spesso antichissimo, ma oscuro e difficile da ricostruire.

Ai giorni d’oggi, internet ha avuto sicuramente il merito di mettere in luce molti di questi aspetti nascosti, accelerandone una, seppur virtuale, manifestazione tangibile. La storia dei movimenti omosessuali dei paesi islamici rientra sicuramente in questa categoria di fenomeni.

Avendo deciso di trattare delle associazioni e dei gruppi che si occupano di diritti LGBT(QI) in Africa e nel Vicino Oriente, realtà che operano spesso nella semi o totale clandestinità, ho deciso di rivolgermi ad un gruppo di ragazzi che nel loro piccolo stanno affrontando l’enorme peso di questi temi con un forte spirito critico un’eccezionale freschezza. Si tratta dei quattro amici che gestiscono il “grande colibrì”, un sito dedicato ai temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere da un punto di vista interculturale.

Una simile scelta si è rivelata lungimirante. Nelle risposte dei giovani blogger, che partono da una conoscenza reale e diretta dei fatti trattati, è forse possibile intravedere una soluzione alla domanda che Bauman ha posto a Malaguti: Che ne è dell’Estate Araba?

 

Puoi parlarci del tuo blog? di cosa vi occupate? da chi è gestito? come è nato l’interesse per l’omosessualità nelle varie realtà legate all’islam?

Siamo quattro amici, ognuno con una diversa provenienza nazionale, culturale e religiosa (anche islamica), italiani, neo-italiani o italo-”qualcosa”, figli di coppie miste o noi stessi in coppie miste. Il blog lo curo principalmente io, con l’aiuto degli altri tre e varie collaborazioni “esterne”.Il grande colibrì”  si distingue dagli altri blog LGBTQ* perché per noi orientamento sessuale e identità di genere sono non solo argomenti degni di nota in sé, ma soprattutto chiavi di lettura per raccontare l’interculturalità, l’incontro, lo scontro e lo scambio tra culture.

Col vostro blog cercate anche di dar voce ai giovani musulmani omosessuali che vivono in Italia. Una parte preponderante del sito è infatti dedicata al progetto MOI – Musulmani Omosessuali in Italia …

Per ora pubblichiamo schede approfondite sulla condizione LGBTQ* nei paesi a maggioranza musulmana e sulle letture coraniche liberali e gay-friendly, un “angolo della posta” e informazioni di attualità, inserite nella nostra rassegna stampa, altrimenti introvabili in Italia. Il progetto si evolverà in futuro a seconda delle esigenze che intercetteremo: le persone cosa ci chiederanno e in cosa saranno disposte ad impegnarsi?

Chi sono questi giovani musulmani? Molti saranno nati in Italia, altri invece saranno arrivati da paesi lontani… quali sono le loro storie?

Premettendo che quelle che ti racconterò sono impressioni, nate da esperienze personali e dal confronto con altre singole persone, quindi da una conoscenza parziale anche se – credo – abbastanza rappresentativa, penso che la prima distinzione importante sia proprio quella tra chi è nato in Italia e chi è immigrato in Italia.Tra chi è immigrato, una situazione particolare è quella dei richiedenti protezione internazionale proprio in ragione del fatto che, essendo LGBTQ*, in patria rischierebbe la galera o persino la vita. Assistiti dal gruppo IO – Immigrazione e Omosessualità di Arcigay, da volontari di Certi Diritti  o da EveryOne , il loro principale problema è riuscire a rimanere in Italia. Lo stesso problema, ovviamente, lo vivono gli immigrati gay irregolari. Per loro è anche difficile frequentare altri omosessuali, dal momento che per entrare nella maggior parte dei locali gay italiani serve la tessera Arcigay e quindi documenti in regola. Molti allora si isolano dal mondo, alcuni, anche per sopravvivere, sono costretti a prostituirsi. Per chi invece è in regola con i documenti o è nato qui, la situazione è forse più facile, ma, il più delle volte, ci sono problemi con la famiglia e con la comunità etnico-religiosa di appartenenza: alcuni scelgono una doppia vita, altri rompono tutti i ponti, altri ancora vivono liberamente, con la famiglia che in fondo sa tutto ma preferisce non parlarne e far finta di niente. Dal momento che quasi tutti gli omosessuali musulmani sono di origini extra-europee, anche loro, come gli altri “stranieri”, si lamentano dei pregiudizi dei gay italiani e del fatto di venire considerati troppo spesso solo come degli oggetti sessuali (per approfondire:http://www.ilgrandecolibri.com/2011/07/etnocentrismo-omosessuale-e-pregiudizi.html).

In molti dei paesi del Magreb e del Vicino e Medio Oriente, la situazione per i diritti LGBTQI non è sicuramente positiva; esistono movimenti di rivendicazione sui diritti omosessuali nati ed attivi in questi paesi? quali sono i principali? come agiscono?

Dal momento che in molti paesi a maggioranza musulmana l’omosessualità è considerata reato, in genere i movimenti LGBTQ* sono rappresentati da poche persone, isolate o coordinate tramite Internet, spesso senza neppure rivelare tra loro la propria vera identità. Queste persone scrivono piccoli blog o gestiscono siti internet, quasi sempre per periodi ridotti e senza aggiornamenti costanti. Alcuni partecipano attivamente alle organizzazioni per i diritti umani, ma raramente dichiarano il proprio orientamento sessuale agli altri attivisti. Insomma, parlare di veri e propri movimenti LGBTQ* è quasi sempre improprio…Solo in pochi paesi possiamo parlare di organizzazioni più formalizzate: è il caso, ad esempio, del marocchino KifKif, gruppo semi-clandestino ma abbastanza strutturato, che pubblica un sito molto seguito e un mensile distribuito segretamente, “Mithly”. KifKif, tra l’altro, ha un rappresentante anche in Italia, il simpatico Rachid che amministra il sito in italianoGayMarocco. Un altro esempio è l’associazione LGBTQ* Helem  in Libano, organizzazione riconosciuta ufficialmente dalle autorità di Beyrut. Helem organizza pubblicamente eventi contro l’omofobia (convegni, seminari nelle università, rassegne cinematografiche, sit in…), come fa anche l’associazione sorella Meem, aperta solo alle lesbiche. A maggio le strade di Beyrut sono state tappezzate di manifesti contro l’omofobia: nei profili di alcuni ragazzi libanesi, su Facebook, si possono vedere le foto delle loro incursioni notturne armati di carta e colla!Ma i movimenti più forti sono sicuramente quelli indonesiano e turco. In Indonesia, lo stato a maggioranza musulmana più grande del mondo,il movimento compirà l’anno prossimo il suo 30° compleanno. Qui operano una quindicina di associazioni ufficiali, con l’appoggio esplicito di vari gruppi islamici (dai musulmani progressisti agli studenti, passando per i partiti religiosi di sinistra). La situazione è però molto complicata dal fatto che da qualche anno le province possono imporre la sharia, anche se solo ai cittadini di fede islamica…Per quanto riguarda il movimento turco, ha raggiunto la maggiore età proprio quest’anno. Nonostante i tentativi ripetuti di chiuderli, esistono numerosi piccoli gruppi in tutto il paese e associazioni importanti ad Ankara ed Istanbul (per approfondire: http://www.ilgrandecolibri.com/2011/06/turchia-in-bilico-tra-laicita-e.html). In queste due città, i Pride riescono a raccogliere più persone di quanto avvenga in molti paesi dell’est europeo…

 

Che tipo di aiuti possono dare i paesi occidentali a questi movimenti?

I gruppi formali possono essere aiutati direttamente, appoggiando le loro battaglie. Gli europei, ad esempio, potrebbero attivarsi più decisamente a favore tanto dell’ingresso di Ankara nell’Unione Europea quanto della difesa della laicità dello stato turco.Per i gruppi informali, tutto diventa molto più complicato: come aiutare una sigla dietro cui, il più delle volte, c’è una sola persona in costante bilico tra la voglia di fare attivismo e la paura di essere scoperta? Un aiuto dall’estero, poi, spesso viene interpretato dalle autorità come attività anti-nazionale, complicando un eventuale quadro di accuse per l’attivista…Questo non significa che non possiamo fare proprio niente, ovviamente. Ad esempio, a me piacerebbe che, come comunità, cominciassimo a cambiare la nostra mentalità: siamo LGBTQ* e orgogliosi, ma la realtà non è fatta solo di orientamenti sessuali e identità di genere, no?Ti faccio un esempio: perché di fronte alla primavera egiziana i media e le associazioni gay hanno spesso saputo raccontare solo dell’omofobia dei Fratelli Musulmani e non del fatto che le persone LGBTQ* sono scese anche loro in piazza Tahrir contro il “laico” Mubarak? Perché stiamo a guardare sconsolati l’ascesa di gruppi integralisti e non ci attiviamo a favore di chi combatte per una democrazia laica (con poche eccezioni, come i Radicali e Certi Diritti)? Forse solo perché non hanno la bandierina rainbow appuntata sul petto?Un altro esempio, anche se in questo caso l’Islam c’entra solo in parte: per raccontare la nuova crociata scatenata contro gli omosessuali in Ghana, tanto i blog quanto i grandi siti gay si sono limitati a tradurre pedissequamente un sintetico articolo pubblicato da PinkNews. Non solo nessuno aveva coltivato contatti in Africa, ma nessuno si è preso la briga di consultare la stampa ghanese (che è in inglese, non in qualche lingua sconosciuta!) o di farsi un giretto nei forum…Se questo è il livello di partenza con cui i media gay vogliono approfondire la realtà e sanno coglierne la complessità, immaginati cosa succede quando si parla di Islam, tema sul quale incombe una montagna di pregiudizi …

Ma a chi importa davvero che rappresentare una comunità religiosa come indistintamente omofoba non colpisce solo i veri omofobi, ma anche le vittime dell’omofobia?

Baseball d’Egitto

Baseball d'Egitto

Decisamente originali le nuove divise dei Memphis Redbirds. La squadra di baseball della città del Tennessee nota per aver dato i natali a Elvis Presley e Johnny Cash cambia look ispirandosi all’Egitto dei faraoni.
Lo stile della maglia e dei calzettoni gioca sull’omonimia della città con l’antica capitale egizia. Quando nel 1819 i primi coloni  fondarono il nuovo insediamento sulle rive del Mississippi decisero di battezzarlo con lo stesso nome dell’antica città sulle rive del Nilo descritta da Erodoto.

Renata Schiavo

Fonte: http://www.cbssports.com/mlb/eye-on-baseball/24491974/cardinals-triple-a-affiliate-to-sport-ancient-egypt-uniforms